Manchester United: il successo nel nome del padre

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Lasciamoci andare un po’, lasciamo che un minimo di retorica ci faccia da guida in questo pezzo. Ci può stare, ce lo vogliamo far stare. Perché nello sport, anche nel calcio, qualche volta c’è una convergenza di storie personali che trovano il palcoscenico adatto per manifestarsi. Per essere poi raccontate, con discrezione se possibile. Perché certe storie – forse tutte le storie – hanno come minimo comune denominatore l’amore. E una delle principali declinazioni dell’amore è la famiglia. Retorica spicciola, eh, per carità: ma ciò che è racchiuso nel film del successo del Manchester United di ieri sera contro l’Ajax in finale di Europa League, è un intreccio di altri film privati che toccano certe corde e non possono lasciare indifferenti.

Quello di Pogba, per fare il primo esempio, 24 anni compiuti da poco. A conti fatti stiamo parlando di un ragazzo, un ragazzo sulle cui spalle sono arrivate presto le responsabilità del predestinato, di quello che vale talmente tanto sul mercato da dover dimostrare sempre e comunque di essere all’altezza, qualche volta anche al di sopra di essa. Spalle che hanno portato con disinvoltura – e con un pizzico di sana, folle, apparente arroganza – l’investitura di eletto. Spalle che si sono prese, ieri a Stoccolma, la responsabilità di gestire il centrocampo, con gli alti e bassi tipici di questa altalenante stagione, certo, ma capaci di indirizzare il match verso la Coppa. Spalle che appena una manciata di giorni fa avevano dovuto contrastare il primo colpo duro della vita, quello che se ne frega se sei calciatore o impiegato: la morte di un padre. Non è mai semplice, non lo è a maggior ragione se hai 24 anni e se da tempo quel padre combatteva una malattia. Non lo è se la tua testa apparentemente scanzonata deve concentrarsi sull’appuntamento più importante della stagione mentre si affanna a elaborare un lutto simile. Quando serve, un campione tira fuori il massimo e ha la testa ben salda sul collo: Pogba ieri lo ha dimostrato, e ci piace pensare che il suo gol fortunoso sia stata l’ultima strizzata d’occhio del papà.

Poi c’è il film che ha per protagonista Fellaini, compagno di reparto di Pogba. Lui al Manchester United ci è arrivato, in definitiva, quasi per caso. Anzi, meglio: Fellaini al calcio ci è arrivato quasi per caso. Specifichiamo di più: ci è arrivato perché suo padre lo ha indirizzato un po’ a forza. Il padre Abdellatif, ex portiere marocchino professionista di Raja Casablanca e Hassania Agadir, ebbe la grande occasione con il Racing Mechelen, squadra belga delle Fiandre. Ma la documentazione per il suo trasferimento definitivo non arrivò mai, così fu costretto a decidere: o Marocco da calciatore povero, o Belgio inventandosi una nuova vita. Scelse la seconda opzione, scelse di diventare autista di tram e bus per mantenere la famiglia nella quale, nel 1987, arrivò Marouane. In lui Abdellatif vide l’opportunità di coronare quel sogno che gli era stato negato dalla sorte; ed era il solo a crederlo, perché il figlio alto e dinoccolato pareva adatto a tutto fuorché al calcio. Sin da quando Marouane aveva 7 anni il padre gli stette addosso: a scuola non a piedi ma correndo, lui dietro in bicicletta. E la sera il pallone: Marouane tirava e lui parava. Raccontano che quando Fellaini arrivò allo Standard Liegi, non si fermava mai, correva sempre. Addestrato com’era a essere un atleta, avrebbe potuto correre i 10.000 metri. Il fisico, poi, era quello giusto. Per fortuna del Manchester United, ha avuto ragione papà Abdellatif.

E c’è Mourinho, defilato. Mentre osserva Pogba e Fellaini rompere qualsiasi tentativo di costruzione dell’Ajax, mentre li vede ringhiare sulle caviglie olandesi e strappare ogni pallone e filo d’erba intorno a loro, magari sta pensando al suo di padre. Felix Mourinho, anche lui ex portiere, anche lui allenatore. Felix non è un giovanotto, è un classe 1938 e non se la sta passando bene. Logica del tempo che passa, ma un padre è un padre anche se sei lo Special One e hai la ragionevole certezza che, visto come stanno giocando i tuoi (meglio: come non stanno lasciando giocare gli altri), finirà come a Madrid nel 2010. E c’è Antonio Valencia, capitano del Manchester United, esterno alto per vocazione, esterno basso per intuizione di Sir Alex Ferguson: Antonio da bambino vendeva bibite fuori dallo stadio della sua città, in Ecuador, insieme con la madre; poi recuperava i vuoti – anche con il padre – per aiutare la famiglia a sbarcare il lunario. E poi ci sono tutti i padri di Manchester, Citizens o Reds cosa importa, che per una sera scansano l’angoscia del non sapere se, dove o quando scoppierà un’altra bomba; che smettono di immedesimarsi in quei padri che pochi giorni fa hanno perso una figlia dopo un concerto; che si concedono il lusso di credere che lo sport possa contribuire a cambiare un po’ lo stato delle cose. Che, magari, si commuovono anche per le storie personali di Pogba, Fellaini, Mourinho e Valencia, simbolo per una notte di una Manchester ancora di più a testa alta. Altissima.


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