Pelé d’oca: tutta colpa di un film
Di Emanuele SaccardoMancano ventiquattro ore al lancio italiano del film sul giocatore più rappresentativo dello scorso secolo. Pelé, O Rei: il calciatore più prolifico della storia (1284 reti in carriera), il più vincente con la propria Nazionale (3 campionati del Mondo conquistati), il più bravo a eludere difensori avversari e luoghi comuni (non ha mai giocato in Europa, quando lo ha marcato Trapattoni non ha toccato palla, però Maradona… e via di questo passo).
Edson Arantes do Nascimento è un train topic ante litteram, sin da quando quel nome tanto lungo diventò di colpo e per tutti il cortissimo Pelé. Diciamo sin dal 1958, quando Twitter poteva essere al massimo il nome esotico di un pappagallino venuto da qualche isola incontaminata.
Dunque ho immaginato Pelé.
Non come lo immaginiamo tutti, vale a dire con la maglia verde-oro del Brasile, il pallone a pezze bianche e nere incollato al piede destro e il numero 10 sulla maglia; o, in alternativa, immortalato nel fotogramma più celebre del cinema sportivo legato al calcio, quello di “Fuga per la vittoria” in cui esegue una perfetta rovesciata (vera) durante la partita della vita (finta) contro l’oppressore germanico nel bel mezzo della seconda grande guerra.
Eh no.
Ho voluto immaginare il Pelé ragazzo, il Pelé che ha 15 anni e sta per fare il provino della vita con il Santos. Il Pelé ancora povero, che non ha dimenticato i primi calci dati a un calzino pieno di stracci o a un pompelmo; che non ha scordato le scarpe lustrate per far quadrare i conti della famiglia; che non può mettersi alle spalle la carriera del padre Dondinho, stroncata quasi sul nascere da un infortunio al ginocchio.
Ho immaginato un ragazzo povero ma con il sorriso, in mezzo al quale resta intrappolato il sogno di finire quello che il papà aveva cominciato.
Il ragazzo è lì che riflette proprio sul potere del verbo “ridere”.
Ridere è come prendere una medicina per i muscoli, le ossa, il cuore e l’anima. La risata porta in sé leggerezza, parente stretta di qualsiasi guarigione.
Ridere non è stare sopra una cattedra dicendo agli altri: “Quanto siete tristi”, ma è scendere dalla cattedra, guardare gli altri e dire: “ Non esiste la paura, non esiste la morte fintanto che ridiamo insieme”.
Quindi ridici sopra. Subito. Sempre.
Ridi quando piove, che con il sole sono bravi tutti.
Ridi degli imprevisti, che con l’agenda in mano sono bravi tutti.
Ridi insieme con quei tutti, c’è sempre di che imparare da qualcuno.
Ridi oggi: per ieri è troppo tardi, per domani ancora presto.
Ridi, tuttavia, delle memorie e dei progetti a venire: il buon umore è cemento rapido per fondamenta solide.
Ridi della salute, insegna qualcosa.
Ridi della malattia, insegna qualcosa.
Ridi della follia, che sia benedetta.
Ridi delle trame del destino, siano esse beffarde o propizie.
Ridi di ogni rimpianto perché altre occasioni non mancheranno mai in questa vita; non mancherà mai la possibilità di fare pace con i treni persi. Resta dentro la stazione, non aver paura.
Ridi delle lacrime, ridi forte, ridi sguaiato! Ridi con loro e le vedrai evaporare in fretta.
Ridi di te stesso. Subito. Sempre.
Esercitati o la vita sembrerà più inafferrabile di un falco pellegrino. Riuscirci è ammansirla come fosse un gatto.
Va bene, d’accordo: magari un ragazzino brasiliano degli anni ’50 non usava parole come agenda o cemento rapido. Ridete pure di quello che ho scritto. In fondo l’importante è proprio questo: ridere.
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