Un’Insigne Italia si scopre squadra, domata la Spagna
Di Emanuele Saccardo68′ Insigne (I), 70′ Aduriz (S)
E’ una serata particolare quella del nuovo stadio Friuli o, se preferite, della Dacia Arena. La prima gara internazionale per inaugurare ufficialmente l’impianto di Udine, finalmente pieno, parte con il lancio di tre paracadutisti della Folgore: in diretta tv e nel buio del cielo notturno, planano dolcemente al centro del terreno di gioco illuminato a festa. Perché di una festa si tratta, questa Italia-Spagna, incrocio numero 34 tra le due Nazionali. Una festa che ha ancora più ragione di esistere dopo i tragici fatti di Bruxelles; dopo il terribile incidente sulla rotta per Barcellona costato la vita a 7 studentesse di casa nostra; dopo l’addio del Profeta del gol, Johan Cruijff, spentosi proprio a Barcellona all’età di 68 anni, vinto da un cancro.
Una festa, questa Italia-Spagna, conclusasi con un altro pareggio (il numero 14, le vittorie azzurre restano 10 così come quelle iberiche). Ma è un pari che regala grande entusiasmo al clan di Conte: in fondo questo 1-1 è anche un filo bugiardo, diciamolo senza remore. Sì, perché l’Italia avrebbe meritato – anzi, strameritato – il successo, in virtù di quanto prodotto durante l’arco del match, delle occasioni da rete e dell’organizzazione di gioco. In generale l’Italia avrebbe meritato di vincere perché, pare strano dirlo, si è dimostrata più squadra della Spagna campione europea uscente.
Va bene, d’accordo: era pur sempre una gara senza niente in palio (gli azzurri non vincono contro le Furie Rosse dal quarto di finale di Usa ’94) e agli spagnoli mancavano i pezzi pregiati che di solito gestiscono il traffico in mezzo al campo. Epperò anche Conte doveva fare la spunta degli assenti di lusso: da Verratti a Barzagli, passando per il lungodegente Chiellini, arrivando a Immobile. La sensazione, dopo aver visto l’Italia gestire con piglio giusto le operazioni in tutte le zone del campo, è che davvero questo gruppo giochi da squadra; quasi che l’astinenza da Club di Conte abbia sortito un effetto positivo riversandosi sui selezionati nazionali. Lo conferma Parolo dopo il match, lo dice l’atteggiamento di tutti sul terreno di gioco.
Questa Italia somiglia, per certi versi, a quella plasmata da Lippi prima del Mondiale del 2006. E, caso vuole, tra pochi giorni i nostri incroceranno i guantoni con la Germania, silurata sia prima che durante quel torneo. Bisogna naturalmente fare le debite proporzioni, ovvio, eppure le sensazioni sono buone. Tutto l’opposto di quel che anche noi scrivevamo alla vigilia della partita: Conte è motivato come e più di prima, a dispetto dell’addio all’Italia (non solo intesa come Nazionale) già annunciato. E poco importa se nessuno degli azzurri ha scelto il numero 10 per le gare contro Spagna e Germania: il campo ha detto che la personalità c’è e in ben più di un unico interprete.
Da Pellè, solito ariete acchiappa palloni e maestro di sponde, a Giaccherini, uomo fidato del c.t.; da Bernardeschi, esordiente con le idee chiare e un talento cristallino, a Zaza, sempre subito in partita sia che giochi con l’Italia o con la Juventus; da Motta, metronomo ritrovato davanti alla difesa (sebbene a volte ecceda nei tocchi del pallone), arrivando a Insigne. Ecco, per l’oro di Napoli il discorso è a parte. Non soltanto per il gol, ma perché nel suo cognome c’è il presagio confermato dai fatti (nomen omen, dicevano i latini). Lorenzo il magnifico è realmente un calciatore che si distingue per qualità: tecnica di spessore, velocità, balistica, visione di gioco. Finito? No, perché l’aspetto più importante è il carattere, gioioso e granitico al tempo stesso. L’entusiasmo della giovane età fuso insieme con la già invidiabile esperienza. Se il Napoli conserva ancora intatte le speranze scudetto e se l’Italia può aspirare almeno alle semifinali europee, tanto dipende e potrà dipendere da Insigne.
Nella festa del Friuli (o Dacia Arena se preferite) la sola nota stonata è il pareggio della Spagna. Già, un pari arrivato troppo presto – appena 2 minuti dopo il vantaggio costruito dagli azzurri – e in fuorigioco (doppio, sia Morata che Aduriz). Peccato perché è stata la macchia sulle 155 presenze di Buffon con la maglia dell’Italia. Peccato perché Conte non si accontenta mai, neanche in amichevole. Lui voleva vincerla. Concetto esteso a tutto il clan e maledettamente fondamentale da qui al primo fischio d’inizio francese. E oltre.
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