Juventus (bruttina) e Real (con merito) tra le Fab Four

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Partiamo da un dato: le semifinaliste di Champions parlano un po’ tutte italiano. La Juventus continuerà a difendere il tricolore, Ancelotti farà altrettanto con il Real Madrid. E sulle panchine di Barcellona e Bayern Monaco siedono allenatori transitati dal nostro campionato: Luis Enrique alla guida della Roma, Guardiola con le maglie del Brescia e dei giallorossi. Aspettando gli esiti dell’Europa League, possiamo affermare che l’ombra del Belpaese si estende ampia, anche se non ancora completamente convincente. Ottimismo italico a parte, la Juventus che approda tra le regine del Vecchio Continente è, in virtù del ritorno loffio con il Monaco, quella in apparenza più debole; al contrario, il Real uscito finalmente vittorioso dall’ennesima stracittadina stagionale contro l’Atletico, pare intenzionato ad inseguire quel che non è mai capitato a nessun Club da quando esiste la Champions: vincerla per due edizioni di fila.

BuffonMonaco – Juventus 0-0 (and. 0-1, tot. 0-1)

Paradossalmente, in una partita brutta ai limiti dell’inguardabile in cui la Juventus sbaglia quasi tutto, le occasioni da gol di cui ci si ricorderà meglio sono quelle capitate proprio sui piedi di calciatori bianconeri: il tiro velenoso di Tevez nel primo tempo e la “maledetta” di Pirlo quasi sulla sirena del secondo, una punizione magistrale che bacia il palo alla sinistra di Subasic. Nel mezzo, l’unico vero intervento di un portiere tocca a Buffon, decisivo quando esce basso su un pallone impazzito messo nel mirino da Berbatov. E la sola palla gol francese degna di nota è una quasi autorete di Barzagli.

Basta, tutto qui. Un match agonico da parte della Juventus, solo cuore e muscoli sul fronte monegasco. Allegri aveva il tesoretto dell’andata, quel gol contestato di Vidal dal dischetto, e una serie di attenuanti in vista della sfida del Louis II: la defezione di lungo corso di Pogba, le condizioni non ottimali di Vidal (reduce da una tignosa tonsillite) e Tevez (problemi di stomaco nei due giorni precedenti la gara). Dulcis in fundo, Morata accusa gli stessi sintomi dell’Apache al momento del cambio, dopo una partita giocata – legittimamente, a quel punto – male.

Se ci si aggiungono lo scivolone di Chiellini dopo trenta secondi (con fantasmi in giallonero annessi) e la conseguente ammonizione per fallo di mano; se ci si infila il sandwich su Kondogbia dello stesso Chiellini e Vidal (il rigore non sarebbe stato un oltraggio, anzi); se ci si piazza la quota inevitabile di tensione, il peso delle aspettative, si può ben capire il sospiro di sollievo al fischio finale di Collum da parte dei vertici juventini e di tutta la squadra. Contava passare il turno, contava tornare tra le migliori quattro del continente dopo 12 anni. Contano, eccome, i denari che arriveranno da questa sudatissima qualificazione.

Allegri si gode la sua prima semifinale in carriera (superato Conte, stoppato ai quarti) che, unita allo scudetto in tasca e alla finale di Coppa Italia, si traduce in “missione compiuta”. Il tecnico livornese resta con i piedi per terra ma nel post partita lancia un chiaro segnale: la semifinale sarà contro un Club stellare, poco importa che si chiami Real Madrid, Barcellona o Bayern; perciò sarà una doppia sfida diversa da quella con il Monaco, giocata a viso aperto dal primo minuto. E allora tutto potrebbe accadere, considerando che da qui in avanti la Juventus potrà permettersi il lusso di entrare in campo con la testa più leggera. Non deve dimostrare altro, quindi ci potrebbe anche scappare un miracolo.

HernandezReal Madrid – Atletico Madrid 1-0 (and. 0-0, tot. 1-0)

88′ Hernandez

Buona l’ottava per il Real e il suo condottiero emiliano, Don Carlo Ancelotti. Dopo i sette precedenti stagionali senza vittoria, nella partita in cui contava soltanto quel risultato lì, i Merengues fanno come l’anno scorso: vincono e lasciano l’Atletico Madrid a bocca asciutta in Europa. Se nella passata edizione la sconfitta bruciò come non mai in casa dei Colchoneros, oggi forse pizzica anche un po’ di più. Non era la finale, ma una gestione tanto remissiva nell’arco dei 180′ è stata forse il peccato originale di Simeone.

Il progetto dell’Atletico è parso chiaro sin dalla gara del Vicente Calderòn: difendere e provare a colpire con le ripartenze, perché i Blancos continuano a faticare in difesa e perché in porta Simeone ha un ispiratissimo Oblak. All’andata funzionò la diga dei suoi guantoni, in fase offensiva i biancorossi non sfondarono e lo 0-0 sembrò un risultato beffardo per il Real, comunque rassicurante per Simeone. Ieri sera al Bernabeu sarebbe bastata una distrazione di Ramos, un errore di Casillas per spianare la strada all’ennesima delusione annuale contro i cugini.

Ancelotti è un lupo assai navigato, nella posizione di Simeone ci si era trovato con il Milan nella semifinale del 2003 di fronte all’Inter. E la spuntò con quel gol “in trasferta” di Shevchenko che spianò il percorso verso Old Trafford. Quindi le contromosse del Carletto erano orientate ad attaccare con veemenza, intelligenza a pazienza. Così è stato e, per paradosso, nella sfortuna delle assenze pesanti (fuori Bale e Benzema, tanto per dire) stava germogliando il seme della buona sorte, una sorte con soprannome e cognome: Chicharito Hernandez.

Proprio il messicano di scorta è il pass per la semifinale: servono 88′, serve che sbagli tutto ciò che può, ma alla fine sull’asse Rodriguez-Ronaldo si creano le condizioni per il suo tap-in a porta praticamente sguarnita. Certo ha giovato al Real la giusta espulsione di Arda Turan, che ha costretto l’Atletico all’inferiorità numerica nel momento topico delle operazioni. Complessivamente va però riconosciuto pieno merito al Madrid, superiore nell’arco della doppia sfida, maggiormente motivato e sempre stabilmente nella metà campo avversaria.

Ancelotti ha così raggiunto la settima semifinale personale di Champions in carriera: 4 con il Milan, 2 con il Real e 1 alla guida della Juventus. Nel mirino c’è il sogno, anzi, l’utopia: riscrivere un’altra volta la storia sfatando il tabù del detentore. Nessuno, dopo aver sollevato la Coppa più bella da quando c’è quella musichetta là, si è ripetuto l’anno successivo. Don Carlo ha il vizio giusto e la squadra ideale per tentare l’impresa.

 

 

 

 


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