La nuova Italia, specchio di un tempo che non è mai abbastanza.
Di Matteo MaffiaIl compito non era semplice, era evidente, la cosa meno evidente, visti i malumori generali dopo le prime amichevoli e le due partite di Nations League, è che per ottenere risultati serve tempo. E molto. La FIGC ha individuato in Roberto Mancini, tecnico jesino di 53 anni con grande esperienza anche internazionale, la figura giusta per ripartire dopo la mancata qualificazione all’ultima Coppa del Mondo. Il nuovo CT ha subito dimostrato di voler invertire la rotta rispetto ai corsi precedenti, largo ai giovani e spazio per molti debuttanti: sono ben cinque infatti i convocati alla loro prima volta (Cragno, Biraghi, Lazzari, Zaniolo e Pellegri) anche a costo di lasciare a casa alcuni pezzi da 90 come Daniele De Rossi, che hanno fatto la storia recente della Nazionale.
Le sensazioni dopo le due partite di Nations League non sono le migliori, certo è che Mancini ha colto l’occasione per sperimentare e cercare un nuovo equilibrio. Sono ben nove, infatti, i cambi effettuati nell’undici titolare tra Polonia e Portogallo. Unici esclusi Jorginho, al quale il CT ha consegnato le chiavi del centrocampo fin dalla prima amichevole affidandogli sempre una maglia da titolare fin ora, e Donnarumma. La chimica tra i compagni è ancora da trovare, ed è parso evidente soprattutto dalla prova sbiadita del regista del Chelsea, che probabilmente ha sofferto la mancanza di un sistema di gioco e dei movimenti rodati che caratterizzano l’idea di gioco di Maurizio Sarri.
La realtà è che, come ha recentemente detto Mancini, i giovani italiani non trovano spazio nelle big del nostro campionato, e si trovano a contendere le maglie da titolari ai numerosi stranieri delle squadre di media classifica del nostro campionato. La colpa probabilmente è sia dei primi che delle seconde, vero è che non ci troviamo più nella Golden Generation del calcio Italiano, quando si poteva scegliere tra campioni del calibro di Totti, Inzaghi, Vieri, Del Piero, Toni. Ma è altrettanto vero che fino a che non si darà fiducia ai vari Chiesa, Zaniolo, Pellegri, Pellegrini e Caldara non sapremo mai se ci troviamo davanti a dei possibili futuri fuoriclasse o a delle belle promesse non mantenute. L’unica vera nota positiva è proprio Federico Chiesa. L’esterno classe ’97 della fiorentina, titolare nella Viola da ormai due stagioni, è parso nettamente il più brillante, soprattutto nella prima uscita contro la Polonia. Ma una domanda sorge spontanea in questo caso: Chiesa gioca perché è il più pronto o è il più pronto perché gioca?
Il vero problema è che nel sistema calcistico italiano siamo pronti a esaltare ed enfatizzare il valore di un giocatore ancora prima che abbia realmente dimostrato qualcosa, e che siamo altrettanto pronti a crocifiggerlo alla prima occasione utile, senza dargli le giuste opportunità per crescere e per sbagliare. Questo condiziona poi anche le decisioni di mercato delle big nostrane, che si trovano a dover scegliere tra giocatori italiani economicamente sopravvalutati anche dopo una sola stagione giocata a buoni livelli o giocatori stranieri con meno appeal mediatico ma che non necessariamente sono meno validi, anzi.
Quando avremo giocatori come Alli, Asensio, Isco, Mbappè e Rashford anche in Italia? La risposta è molto semplice: inizieremo ad averli quando il concetto di tempo entrerà nel vocabolario calcistico italiano ed i nostri giovani avranno la possibilità di dimostrare dove conta di più quanto valgono, ossia sul campo e non sulle prime pagine dei quotidiani Sportivi o sui Social.
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