È morto Silvio Berlusconi. Addio al leader di Forza Italia
Di Alessandro LugliÈ morto Silvio Berlusconi. Aveva 86 anni. Se n’è andato stamani alle 9.30 all’ospedale San Raffaele di Milano, dove a stretto giro sono arrivati il fratello, Paolo Berlusconi, e poco dopo a bordo di auto diverse i figli Marina, Eleonora, Barbara e Pier Silvio. I valori del leader di Forza Italia, ricoverato da venerdì scorso per accertamenti legati alla leucemia mielomonocitica cronica di cui soffriva da tempo, non accennavano a migliorare. Poi la situazione è precipitata.
Si fa fatica adesso ad immaginare un’Italia senza Silvio Berlusconi, l’Arcitaliano per eccellenza, un’esistenza da mattatore assoluto. Nell’ultimo cinquantennio non c’è stato un giorno in cui il suo nome non sia stato evocato, in tv, sui giornali, in Parlamento, nei bar, allo stadio; “il Berlusca” ha spaccato l’opinione pubblica come una mela. Impresario edile, tycoon televisivo, presidente del Milan e poi del Monza, fondatore di un partito chiamato Forza Italia, quattro volte premier, imputato in processi clamorosi. Tutto in lui è stato eccessivo, figlio di una dismisura. A un certo punto la sua popolarità è stata tale da essere identificato, nel mondo, con l’italiano tout court.
Difficile riassumere qui, in un articolo, la sua incredibile vicenda pubblica e privata. E’ stato l’uomo più facoltoso del Paese, per cominciare. Una ricchezza gaiamente esibita. Ma non era nato ricco, l’enorme agiatezza se l’era costruita, prima da palazzinaro, poi da visionario catodico, con un impeto talmente spregiudicato da indurre più di una Procura a vederci chiaro. Lo scrittore Giuseppe Fiori che nel 1995 gli dedicò una delle prime biografie la titolò Il venditore. Persuadere, sedurre, piacere agli altri: questo è sempre stata la caratteristica di Silvio Berlusconi, che non riusciva a capacitarsi che invece ci potesse essere una larga fetta di cittadini che trovava diseducative le sue televisioni e sommamente inaccettabile la discesa in campo, perché vi coglieva l’opportunismo di un uomo che sceglie la politica non per vocazione, ma per cinica autodifesa. E’ stato fatto notare che il virus del populismo, che a un certo punto ha contagiato il mondo, si sia propagato proprio dal Cavaliere politico
Il Berlusconi del 1994, quelle delle prime elezioni, reca con sé tutti i crismi dei futuri demagoghi che in seguito calcheranno la scena: il rifiuto dei partiti e di “quelli che c’erano prima”, gli umori antiparlamentari, le Camere viste come luoghi di perdigiorno, la retorica dell’uomo solo al comando, il ghe pensi mi, il disprezzo esibito per la cultura, la distruzione di ogni memoria collettiva in una presunta palingenesi morale nel segno del nuovo. Tutto ciò in fondo è nato con “Silvio”.
E’ stato il piccolo borghese venuto dal nulla, figura eponima di un lunga stagione. Ciò piaceva all’italiano medio, convinto che li avrebbe resi ricchi come aveva reso immensamente prospere le sue aziende. Si circondò nel tempo di una schiera di fedelissimi, per cui il Cavaliere – come era soprannominato grazie a un titolo ottenuto nel 1977 – era una sorta di divinità immune da ogni critica: “Una schiera di fedeli che offrono soltanto leggende color rosa”, come ebbe a notare Corrado Stajano. Questo popolo cantava ai suoi comizi “meno male che Silvio c’è”; dall’altro si ergevano i suoi avversari, “i comunisti”, l’altra Italia per cui Silvio era il Caimano, e ne denunciava l’egolatria, il conflitto d’interessi, le leggi ad personam, l’esorbitanza nei costumi e scendeva in piazza, faceva campagne di stampa (questo giornale fu in prima fila, spesso in solitudine), organizzava girotondi, film, libri. Due mondi inconciliabili.
Nato nel 1936, figlio del boom, conservatore, fondamentalmente di destra, (“il Paese sta andando sempre più a sinistra” dirà a Mario Pirani sulla Repubblica del 15 luglio 1977 per motivare l’acquisto di una quota del Giornale), dalla personalità proteiforme, stregava per la sua simpatia istintiva e bugiarda. Raccontava barzellette. Parlava come l’uomo della strada. Mostrava vicinanza alla gente comune. Voleva parlare alla casalinga che guardava i suoi programmi mentre rassettava casa. Gli perdonarono tutto. Le gaffe. La bulimia sessuale. L’inconcludenza politica. Nel film di Sabina Guzzanti, Draquila, girato nel pieno dello scandalo delle Olgettine, una donna dell’Aquila dice: “E che male c’è se gli piacciono le donne? E’ un uomo!”.
E’ grazie alle televisioni Fininvest, con la fondazione di Canale 5 nel 1980, a cui si aggiunsero Italia Uno e Rete 4, che s’impone. Drive In e Dallas rompono con la pedagogia delle reti Rai. Perfeziona il suo talento con una capacità mostruosa di lavoro. La leggenda narra che la sera, davanti alla tv, guardasse i programmi Fininvest segnalando all’istante i difetti di ciascun programma, dalla scelta degli ospiti, all’inquadratura, alle luci. Ossessivo, pignolo, prima di altri colse i mutamenti profondi che si muovevano nelle viscere della società, sfiancata dagli anni del terrorismo e dalla guerra fredda e bisognosa di nuovi miti, di una leggerezza svagata. Rompe così una convenzione. Un codice basato fino a quel momento sulle due culture, quella cattolica e quella comunista. Milano 2, il quartiere per ricchi, che sin dal 1974 offriva ai suoi abitanti la tv via cavo, TeleMilano, era il frutto di questa intuizione. La tv amplificava così il desiderio di evasione dei nuovi ceti. Drive In, il format domenicale con le ragazze fast food, che sbarca su Italia Uno nel 1983, rappresentò quindi il manifesto di una generazione di giovani, i paninari, che rifiutavano le ideologie e predicavano il disimpegno. “Qui non si fa politica, si fa tv” il piano editoriale. “Corri a casa in tutta fretta che c’è un biscione che ti aspetta” il jingle con cui richiamare le masse.
In realtà Berlusconi non è mai stato alieno al potere, al contrario ne è stato da subito parte integrante. Si iscrisse alla P2, tessera 1816. Coltivò rapporti solidissimi con i socialisti di Bettino Craxi, allora stabilmente al governo in un disegno essenzialmente anticomunista. I democristiani lo guardavano con diffidenza, e quelli della sinistra dc, da Scalfaro a Mattarella, si riveleranno culturalmente i suoi più acerrimi avversari. Se c’è però un prima e un dopo ciò avviene nel febbraio 1986, con l’acquisto del Milan, il suo capolavoro assoluto. Rifonda una società gloriosa, ma ormai ai margini del grande calcio, pesca un allenatore che viene dalla B, e che aveva fatto bene al Parma, privo di pedigree, Arrigo Sacchi, acquista tre top player olandesi, Van Basten, Gullit e Rijkaard, e inaugura un calcio champagne che dominerà il calcio europeo per vent’anni, dando una pedata definitiva alla nostra tradizione sparagnina e catenacciara.
Dominato dall’ossessione di fare colpo, trasforma la sua villa di Arcore in una specie di reggia, con quadri fiamminghi, le tele del Rinascimento, un Tintoretto, facendola divenire il crocevia dei destini pubblici. Tutto passa da lì, a un certo punto, dalla Versailles brianzola. Berlusconi si propone come monarca assoluto, in competizione con Gianni Agnelli, che in quegli anni era il patron della Juventus, il vero re nell’immaginario collettivo.
Nel ’93 lo strappo. Tangentopoli, a cui le sue tv hanno inizialmente dato sostegno, sembra favorire le sinistre. Berlusconi fiuta il pericolo, si sente minacciato. A novembre, a Casalecchio Reno, alla vigilia delle elezioni a Roma, dice che tra i due candidati Francesco Rutelli e Gianfranco Fini alla fine voterebbe per il secondo: è lo sdoganamento della destra. Lo dice, non a caso, all’inaugurazione di un ipermercato, i centri commerciali di lì a poco diverranno le vere piazze. E’ la rottura di una narrazione, l’inizio di un’ascesa formidabile. Tre mesi dopo osa l’inosabile: fonda un partito personale, che chiama incredibilmente Forza Italia, e si presenta alle elezioni. Vince. E’ l’atto fondativo della seconda Repubblica. I vecchi partiti che hanno retto la Prima, la Dc, il Psi, il Pci, sono seppelliti sotto un cumulo di macerie. Promette un milione di posti di lavoro, un nuovo sogno. La promessa non viene mantenuta. Cade. Ma si rialza dopo ogni sconfitta, mostrando indubbie doti di combattente.
Quasi trent’anni però dopo qual è il lascito politico? Pochissime riforme, a ben vedere. Si fa fatica a trovare un senso e un’eredità. Berlusconi ha amministrato se stesso più che l’Italia, eppure questa sua narrazione ha stregato la psiche nostrana per molti decenni. Nemmeno gli scandali, i processi, l’incredibile numero di leggi ad personam e i conflitti d’interesse ne hanno scalfito l’immagine. E’ rimasto al centro del Palazzo per trent’anni.
Tuttavia Silvio Berlusconi alla fine era vecchio, isolato e un po’ malinconico. Altri avevano preso il suo posto. E adesso è strano pensare che non ci sia più, perché è stato un personaggio romanzesco. Nel bene e nel male lo specchio di questo nostro strano Paese.
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